di Francesco Catera
E’ il novembre del 1628 e in un paesino lombardo vicino Lecco quattro capponi stanno per vedere il loro ultimo sole: Agnese Mondella, infatti, si sta occupando dei preparativi per il matrimonio della figlia Lucia con Renzo Tramaglino e presto le saporite bestiole saranno immolate per la festa.
La scoperta dell’intimidazione – perpetrata da Don Rodrigo attraverso i suoi bravi – nei confronti di Don Abbondio e il suo inaspettato rifiuto di celebrare il rito, però, hanno messo i promessi sposi e Agnese in uno stato di comprensibile agitazione.
Su consiglio della futura suocera, secondo la quale “[…] A noi poverelli le matasse sembran più brogliate, perché non sappiam trovarne il bandolo”, Renzo decide di andare a consultare l’avvocato Azzecca-garbugli omaggiandolo – pensate un po’ – proprio dei quattro capponi, presentati nel testo originale con l’epiteto di “poveretti”, come a volerne rimarcare il destino crudele: le povere bestie, scampate a una fine prematura grazie all’annullamento della cerimonia nuziale, rischiano di affrontarla ugualmente nella cucina dell’insigne giurista. Del travagliato itinerario verso lo studio dell’avvocato, ridotti a “mazzetto di fiori” con le zampe legate da uno spago e tenuti a testa in giù, colpisce la graduale “personificazione” dei capponi, assimilati a dei “compagni di sventura”: e mentre Renzo è in preda alla collera e alla disperazione, le povere bestie non hanno tra di loro la minima solidarietà, anzi, finiscono per “beccarsi” a vicenda aggravando il loro danno.
Che Manzoni volesse alludere ai contrasti tra i liberali milanesi in occasione dei moti del 1821 o avesse previsto lo spettacolo pubblico offerto dalla scissione tra Renzi e Calenda, stabilitelo voi; quella dei capponi, sicuramente, vuole essere una più ampia riflessione sulla natura umana, ritenuta dall’autore egoista ed incapace di solidarietà persino nella sventura. Da qui l’espressione “fare come i capponi di Renzo”, proverbio teso a deplorare i vani litigi fra le vittime di una sciagura.
Che gli attriti e le violente dichiarazioni della scorsa settimana tra i vertici di Italia Viva e quelli di Azione, con i rispettivi leader in prima linea a suonarsele di santa ragione a mezzo stampa e a suon di tweet, potessero essere soltanto un tiro alla fune volto a stabilirne l’elasticità e la resistenza, è stato escluso nella giornata di giovedì scorso: il progetto politico del Terzo Polo è definitivamente naufragato.
Sul fatto che l’ambizione spesso rappresenti il catalizzatore dell’ego nell’agire umano ci sono pochi dubbi ed è pacificamente accettato, consci della cassa amplificatrice che essa rappresenta, soprattutto da noi che ci occupiamo di politica. Ma fino a questo punto? Evidentemente si. E per quanto mi riguarda, in questo caso non c’è da farsi meraviglia.
E’ un finale scontato che racconta di come sia svanita la passione tra due amanti mai sposati; anzi, mai neanche fidanzati. E così, dopo diversi giorni di tensione, la corda si è spezzata: è l’epilogo di un esperimento fallimentare causato dal protagonismo smisurato dei due leader e dalla loro tendenza innata a voler fare le scarpe all’altro. Due uomini, due caratteri non fatti per coesistere: uno è di troppo.
Calenda giura che sia stato Renzi a provare a fregarlo; Renzi, invece, che sia stato Calenda a non accettare una modalità di definizione del sistema di forze dell’eventuale partito unico di stampo marcatamente congressuale e ad aver imposto clausole etiche ad Italia Viva secondo cui, per esempio, la Leopolda e le attività da conferenziere del senatore fiorentino sarebbero diventati solo lontani ricordi. Tutte balle. Le ragioni intrinseche dietro questa rottura sono di principio. Di incompatibilità personali e di caratteri particolari, per utilizzare un eufemismo.
Ne scrivo per dirvi la mia e per allenare la penna anche in tema di tragicomico ma è inspiegabile il clamore mediatico che sta riscontrando l’esito, incredibilmente scontato fin dal principio, del tentativo – un ‘non-esperimento’, per il vero – che è stato il Terzo Polo.
Un incontro di necessità, una faccenda tattica e manovriera. E noi fummo troppo facili profeti all’epoca delle elezioni: dove sarebbero mai potuti andare due narcisi così? Saltato il patto con Letta, con una faccia di bronzo senza eguali Carlo Calenda – che pare essere convinto del fatto che il mondo sia stato creato per girargli intorno – e i vertici della sua Azione hanno dato una soluzione repentina all’indicibile paura di non entrare in Parlamento: l’ipotesi di uno sposalizio politico con l’isolata Italia Viva, la falsa narrazione da campagna elettorale della nascita di un nuovo polo liberal riformista e il trasformismo più becero – declinato sul piano delle alleanze – per non pensar alla soglia di sbarramento (fissata dal Rosatellum al 3% per le liste singole) ed escludere qualunque possibilità di diventare leader senza seggi.
Sfruttatisi reciprocamente per tenersi in vita hanno messo in piedi un accordo basato su interessi di poltrona – legittimi, per carità – sui quali è stata ricamata la favola di un nuovo soggetto politico centrista, liberale ed indipendente che in realtà è stato soltanto un polo civetta per drenare voti.
Ma mettere insieme i liberali (quelli veri), storicamente, è sempre stata impresa ardua; figurarsi quelli finti.
La realtà, infatti, è che in Italia il centro liberal riformista è da sempre caratterizzato da una endemica rissosità interna: una lunga storia di ‘frazionismo’, la definisce Ferrara utilizzando sgradevolmente un lessico di stampo comunista – e fallendo dunque nel tentativo di occupare i territori di suo nonno e occupando invece quelli del padre. Ma il concetto di fondo, purtroppo, è giusto: una storia che parla di ambizioni sfrenate, esclusivismi, avventurismi solitari e unificazioni durate poco e funzionate male.
Il Terzo Polo ha rappresentato un simpatico imbroglio, uno sterile tentativo di dipingere come ‘innovativo’ uno pseudo progetto fisiologicamente rivolto ad un’area politica ben definita – almeno ideologicamente – che in Italia raccoglie da 30 anni a questa parte più di 5 milioni di voti e che ancora oggi ne accosta quasi la metà al simbolo di Forza Italia.
Progetti claudicanti difficilmente partoriscono un miracolo: più che finito, il terzo polo non è mai esistito.
E mai esisterà, fino a quando proprio Forza Italia (e questo non vuole essere un auspicio ma una riflessione sulle possibilità) non si trasformerà deliberatamente in calamita garantista e liberale per tutti i piccoli partitini moderati che orbitano nel cosiddetto ‘centro’.
Che fosse questa la strategia di Renzi, fresco di nomina a direttore editoriale de ‘Il riformista’?
Com’è noto, infatti, l’ultima mossa della volpe fiorentina è stata l’improvviso sbarco al vertice del quotidiano: un giornale storicamente garantista fino al midollo, ultra liberale e democratico; proprio lui, bersagliato dalla magistratura e nuovo paladino della lotta all’accanimento giudiziario, centrista con un occhio a sinistra e mezzo piede nel centrodestra, garantista, atlantista, riformatore prima ancora che riformista. Oltre lo sciocco e vano tentativo di ergersi a reincarnazione in chiave moderna del Cavaliere, effettivamente appare perfetto per il ruolo. E, polemiche sulla sua figura moralmente inconciliabile con la direzione di un giornale a parte – costituzionalmente non v’è nessuna incompatibilità tra la figura di direttore di giornale con quella di parlamentare – considerate le precarie condizioni di salute di Berlusconi, la tattica di Renzi è sottile: servirsi della tribuna de ‘Il Riformista’ per avere un’eco amplificata in politica. Che la strana manovra dietro al passaggio di testimone tra Sansonetti e Renzi – che come primo atto ha nominato Andrea Ruggieri (ex deputato di Forza Italia, escluso dalle liste elettorali ma ancora molto vicino al partito nelle relazioni) come direttore responsabile del Quotidiano – fosse proprio quella di sfruttare l’ex berluscones come aggancio per attrarre a sé Forza Italia e le sue correnti più centriste? Su questo soltanto il tempo ci darà risposte.
Ciò che è certo, ritornando all’insanabile frattura tra i leader di Azione ed Italia Viva, è che da due egoriferiti tenuti insieme da ragioni d’opportunità non può che concretizzarsi un grosso flop.
Ad ogni modo, le differenze tra i due sono tantissime; troppe, anche solo per pensare di elencarle. Semplicemente uno è un animale politico, l’altro un vero disastro.
Tant’è che Renzi è il principale promotore della attuale legge elettorale grazie alla quale è stato ago della bilancia, col suo 3%, di almeno due dei precedenti governi; Calenda, invece, il corpo ospite entro il quale, in sede di definizione delle alleanze, il primo ha deposto le sue uova aspettando che schiudessero per mangiarlo vivo. Anche Velardi, in un intervista concessa ad ‘Italia Oggi’, confronta i due litiganti:
ammesso e non concesso che Carlo Calenda ben abbia operato da Ministro (preparazione e competenze si costruiscono, chiunque può), di certo si può asserire che nulla abbia imparato – per sopperire all’indole carente – in tema di fiuto politico e strategia. Non puoi pensare di dettare l’agenda twittando 50 volte al giorno come un adolescente: il politico misura e pesa le parole, figurarsi le azioni.
Al contrario, Renzi, per quanto sia percepito dai più come un volpone del quale diffidare – ed accantonata dunque la partita del consenso perché all’italiano medio non piacciono i rigurgiti tatticamente democristiani – è provvisto fino all’inverosimile della capacità strategica. Politico fino al midollo.
Inoltre, nella gara dei personalismi, Calenda rispetto a Renzi appare ingenuo: egocentrico in egual misura, certo, ma senza le ossa per potersi porre sullo stesso livello; e guarda caso, tra i due, sembra quello che nella vicenda sia stato capace di “suonarsela e cantarsela” da solo, senza accorgersi di essere stato utilizzato unicamente come traghettatore per la rielezione in Senato di Renzi.
Sofferente, sicuramente volubile, vulnerabile e molto rosicone; invidioso del carisma e dei numeri personali del rivale ma incapace di ammettere di essere destinato a soccombere, alla lunga, nel confronto.
Tant’è che – finalmente ci siamo – a parer di chi scrive l’unica vera ragione della rottura si riscontra nella paura (leggasi ‘ritrovata consapevolezza’) che il leader di Azione ha sempre avuto rispetto ai prevedibili esiti del congresso fisiologicamente conseguente allo scioglimento di Italia Viva e Azione e prodromico alla definizione della struttura del Partito Unico risultante dall’operazione di fusione: Caporetto calendiana col sistema congressuale ‘classico’, voluto dai renziani, che parta cioè dal basso – e quindi dalle circoscrizioni locali dove Italia Viva è meglio strutturata rispetto ad Azione – e che scali province e regioni fino al coordinamento nazionale sfruttando un effetto domino prodotto dagli eletti nei territori.
Così, dopo essersi erto a leader con la tacita e scaltra accondiscendenza di Renzi (il contentino temporaneo), aver imposto il suo nome nel simbolo elettorale e aver tentato di dare un’accelerata al formale scioglimento di Italia Viva e della sua Azione per procedere alla costituzione del Partito unico, al momento dell’Hic Rhodus, hic salta, Calenda si tira indietro davanti alla legittima richiesta dei renziani di un processo elettivo interno che definisca democraticamente, partendo dal livello locale, la leadership e il sistema di forze all’interno del nuovo gruppo. Non è servito neanche convocare il comitato politico del Terzo Polo per stabilire le regole del gioco: il congresso, nella testa di Calenda, era già chiuso; la possibilità di perdere non è contemplata e per principio ha vinto lui. Tensione narcisista, fiera dell’ego; l’atteggiamento di Calenda risponde più a categorie psicologiche che politiche: o lui il capo o non se ne fa nulla.
E nonostante ciò è convinto di piacere agli italiani; in realtà è il più forte soltanto nel panorama dell’impoliticità attiva: è ormai evidente che Azione goda di buona salute prevalentemente sui giornali e non nell’elettorato. Ovviamente, verrebbe da dire, date le evidenze: la marea di tweet da ragazzino in piena crisi ormonale utilizzata come principale mezzo politico fin dalla campagna elettorale, per esempio, ne mette in luce l’inaffidabilità e la totale mancanza di lucidità.
Storace, su ‘Libero’, ricorda l’infinito elenco di operazioni sfascia carrozza di Calenda: non è necessario tornare troppo indietro nel tempo, tanto disarmante è la frequenza con cui ce le regala. Ebbene, se è facile richiamare alla memoria le dinamiche che hanno visto nascere il disegno del Terzo Polo dopo un accordo mandato all’aria col Pd, più complicato – ma doveroso (e basti questo incredibile frammento esemplificativo) – è ritornare al 2018: inizio di Marzo, evento di chiusura della campagna elettorale di +Europa, il partito di Emma Bonino. In platea, Carlo Calenda ministro uscente: al termine di un suo intervento precisò di non essere iscritto a nessun partito ma di ritenere +Europa il suo naturale sbocco se avesse deciso di entrare, partiticamente, in politica. Due giorni dopo, le elezioni. Altre 48 ore, il tempo di analizzare rapidamente il voto, e Carlo Calenda si iscrive al Partito Democratico; esattamente a 4 giorni di distanza dalla dichiarazione di amore e fedeltà alla Bonino. Calenda è così e non lo scopriamo certo oggi ma l’ego smisurato che da sempre ne caratterizza l’agire pare essersi esponenzialmente dilatato negli ultimi mesi: l’8%, insperato alla vigilia delle politiche di settembre, ne sarà stata la causa principale; ciò che è certo è che adesso pare essere in preda ad un delirio di onnipotenza sconcertante. E, combinato col nervosismo di un leader di partito sovraesposto mediaticamente, il risultato non poteva che differire da questa tragicomica rottura.
Due primedonne non possono stare allo stesso tavolo. Come mettere in gabbia due mustelidi insieme: prima uno uccide l’altro senza pietà, poi, se costretto alla reclusione, si suicida. Ma almeno i mustelidi si combattono per istinto, non per avidità. E il sopravvissuto si suicida per amor di libertà, non per egoismo.
Intorno, nel frattempo, tutto tace: il divorzio tra Renzi e Calenda va in scena sul palcoscenico vuoto dell’opposizione. Non si sente e vede altro: non è chiaro se il Pd abbia deciso di lasciare la scena ai due litiganti o se i gossip stiano coprendo il silenzio e il vuoto patologico e preoccupante che caratterizza da un pezzo la sinistra. Dopo le primarie dem, nessun atto politico portato avanti: che Schlein stia conservando le energie per il 25 aprile per continuare a spingere sul tema dell’antifascismo? Chi vi scrive, in tutta sincerità, spera vivamente sia così, visti gli effetti rovinosi che questa strategia ha portato di recente al Partito Democratico. Sembra un complotto masochista pro Meloni e pro governo ordito dalle stesse opposizioni – attualizzazione perfetta della metafora, utilizzata in apertura, dei capponi di Renzo – che, beccandosi scriteriatamente tra di loro, potrebbero fare la fortuna dei loro avversari. Si, perché i moderati potenzialmente orfani e in cerca di una nuova casa rappresentano un’occasione ghiotta per la premier: assicurarsi molti voti ‘liberi’ rivolgendosi alle cosiddette ‘pance democristiane’, esattamente come fece Berlusconi negli anni novanta con gli esuli della vecchia DC, logorata dalle inchieste e dalla storia. E il fatto che Meloni possa impossessarsi dello spazio politico del centro dovrebbe far rabbrividire il Pd perché le consentirebbe, nei fatti, di monopolizzare la scena per anni: una – a detta di molti – populista antieuropea definitivamente convertita al pragmatismo conservatore e con l’occasione di diventare nuova federatrice di un centrodestra moderno, come dice su ‘Il Messaggero’ il professore Campi, lasciandosi alle spalle suggestioni troppo identitarie che forse condizionano parte della vecchia classe dirigente di Fratelli d’Italia.
Ad ogni modo, aspettando che qualcuno insegni a Calenda a volare più giù, non un centimetro oltre la sua statura, pare che gli allibratori abbiano già aperto le scommesse sulle corse, le giravolte e le modalità con cui – verosimilmente vaneggiando e narrando di fantomatici poli riformisti, di rottura ed alternativi al bipolarismo stagnante – tenterà di accalappiare alleati per vincere il derby alle elezioni europee (dove lo sbarramento è al 4%). Ci sarà da ridere.
‘Carletto assomiglia più ad un pallone gonfiato o ad un bimbo che va via col pallone sotto braccio?’, si chiede sardonico Sallusti. Non v’è dubbio, direttore: Carlo Calenda è un cappone…gonfiato.