“Nella mia ora di libertà”, introduzione al sistema carcerario italiano

Una nuova rubrica che punta a smascherare l’ipocrisia di un sistema carcerario totalmente incompatibile con le libertà fondamentali sancite dal nostro ordinamento statale

di Dario Famà

Uno dei grandi e intramontabili mantra degli storici riguarda il ruolo pedagogico della storia come maestra di vita. É innegabile, infatti, che per capire i fenomeni sociali, culturali, politici ed economici di un popolo si debba partire da lontano, cercando di trarne un ritratto psicologico in grado di spiegare alcune dinamiche del nostro presente.  

Facciamo un salto indietro di mezzo secolo. Il 1973 si caratterizza per essere un anno cruciale degli equilibri mondiali: la fine della guerra del Vietnam si accompagna allo scoppio del conflitto dello Yom Kippur. Imperversa la crisi petrolifera e, conseguentemente, prende avvio la fase dell’austerity, contingenza storica in cui i governi occidentali impartiscono un consistente razionamento del consumo energetico. 

In quel preciso anno, Fabrizio De André fa uscire “Storia di un impiegato”, uno degli album musicali più pungenti e criticati nella storia recente del Paese. In alcuni versi di “Nella mia ora di libertà”, il cantautore denuncia il sistema vigente, compreso il regime carcerario: 

Certo bisogna farne di strada 
Da una ginnastica d’obbedienza 
Fino ad un gesto molto più umano 
Che ti dia il senso della violenza 
Però bisogna farne altrettanta 
Per diventare così coglioni 
Da non riuscire più a capire 
Che non ci sono poteri buoni
 

Esattamente cinquant’anni dopo, il dubbio sull’effettivo funzionamento delle carceri permane, soprattutto se si fa riferimento al comma III dell’articolo 27 della nostra Costituzione. In tale passaggio si evidenzia come: “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”.  

Nonostante ciò, nella galassia reazionaria della peggiore destra dell’Europa occidentale, i carcerati, soprattutto se stranieri, non vengono considerati alla stregua del mito degli “italiani brava gente” diffusosi durante le violentissime campagne militari in Eritrea e Libia. Essi, piuttosto, vengono trattati come secchi dentro cui vomitare odio e vendetta

La distinzione nei giudizi tra persone incarcerate e di diversa etnia denota un sentimento fortemente intollerante nei confronti del fronte politico più conservatore, che cavalca in maniera pericolosa e ripugnante la rabbia e la delusione della maggioranza della popolazione.  

A dare adito a queste pulsioni popolari è la credenza dell’assoluta imprescindibilità della detenzione carceraria. Nulla di più sbagliato. In questa serie di articoli mi dedicherò a smascherare l’ipocrisia di un sistema carcerario totalmente incompatibile con le libertà fondamentali sancite dal nostro ordinamento statale.  

Grazie al mirabile lavoro dell’Associazione Antigone, da sempre sensibile alla tutela dei diritti dei detenuti, è possibile tracciare un profilo della popolazione carceraria ed evidenziare le clamorose criticità e falle del modello detentivo.  

Al termine di questi articoli analitici procederò a dare una mia personalissima opinione riguardante il concetto stesso di carcere quale luogo di detenzione e restringimento delle libertà personali.  

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