E’ l’8 Marzo. “Mi guardi onorevole Serracchiani”

di Francesco Catera

Per capire quale significato dovrebbe assumere davvero l’8 Marzo e quali siano i messaggi che meriterebbero di essere ancorati alle mimose, basta tornare indietro di qualche mese.

Ottobre dello scorso anno, Camera dei Deputati, intervento programmatico del Presidente del Consiglio.

Ad un mese di distanza dalle elezioni che hanno sancito una sonora e storica sconfitta per il centrosinistra, Debora Serracchiani, capogruppo del Partito Democratico alla Camera dei Deputati, nel suo intervento in aula accusa per l’ennesima volta il Presidente del Consiglio Giorgia Meloni di proporre un modello di donna subordinata al genere maschile.

La replica del Premier non si fa attendere. E’ lapidaria, netta e diventa subito virale.

Ed il tenore della risposta è acuito dal suo tempismo: immediata. Giorgia Meloni ribatte alla falsa insinuazione sul suo modo di intendere il ruolo femminile direttamente dal suo scranno di Presidente del Consiglio, senza nascondersi dietro un tweet o una dichiarazione rilasciata in tv.

 “Mi guardi onorevole Serracchiani; le sembra che io stia un passo dietro agli uomini?”

Il passaggio con cui il presidente del Consiglio chiude la prima banale polemica – non mi avrebbe stupito se fosse risultata rubricata ‘critica sull’uso degli articoli determinativi’- della sinistra contro il nuovo governo è accolta da un’ovazione a Montecitorio.

La scena inizia immediatamente a spopolare in tv e sui social: tutti riconoscono la figuraccia di Serracchiani e nessuno si capacita di come si possa pensare di rivolgersi in questi termini al primo Presidente del Consiglio donna della storia della Repubblica. Soprattutto se, come se questo non bastasse, il premier aveva appena concluso il suo intervento in Aula esprimendosi in senso diametralmente opposto citando, in un lunghissimo discorso, tante figure femminili ritenute esemplari proprio perché avevano “osato”, aprendo la strada a un’emancipazione fatta di coraggio e di merito.

“Non ho mai visto un autogol clamoroso come quello di Debora Serracchiani che accusa Meloni di ‘volere le donne un passo dietro agli uomini’. Se l’opposizione del Pd è questa il governo può dormire sonni tranquilli”, dichiara Carlo Calenda.

In realtà, a mente lucida, lo si è capito subito il senso di quell’uscita. Incastonata nella narrazione iniziata già in campagna elettorale, quella orrenda propaganda ideologica trascinatasi sull’invisibile filo conduttore del “l’iniziale di ‘donna’ è maiuscola solo se è di sinistra e se piace a noi”.

Per anni siamo stati a sentirci ripetere (e al governo c’erano gli altri) che esiste un vetro di cristallo da rompere – espressione che ci ha anche abbondantemente stufati – e che le donne non riescono a raggiungere ruoli apicali. Accontentati: vetro distrutto e sinistra a denti stretti perché, dopo la prima donna Presidente del Senato nel 2018, è ancora il centrodestra ad insegnare la lezione. Giorgia Meloni è la prima donna Presidente del Consiglio dei Ministri in Italia. È storia ed è un traguardo di civiltà.

Eppure non si sono sentiti complimenti al di là del muro; neanche da parte di chi per anni ha chiesto le quote rosa, una contradictio in adiecto rispetto al riconoscimento effettivo della parità di genere.

Giorgia Meloni, invece, le quote rosa non le ha mai chieste perchè non si è mai trasmodata nel femminismo di chi vive di paletti ridicoli, di asterischi, mai sperticata negli ipocriti dogmi d’emancipazione di chi vive di storpiature della lingua italiana e di fumo. E c’è un particolare che probabilmente agli occhi dei più è passato inosservato: dopo l’esito delle elezioni, consapevole del fatto che presto sarebbe diventata Presidente del Consiglio, non una volta ha utilizzato la parola ‘donna’. Non ne ha avvertito la necessità e non perché non sia importante, tutt’altro: è il merito, non il genere biologico di chi lo porta; è la persona, non l’essere portatore sano di sesso rosa o blu. Uno schiaffo alle femministe progressiste che hanno consumato fiumi di inchiostro a sfondo rosa e parole vuote: e dunque, mentre Laura Boldrini la accusa di firmare i suoi atti con ‘Presidente’ e non ‘Presidentessa’ e qualche altra dichiarata paladina del femminismo puro, mostrandoci tutta la sua ipocrisia al momento dell’hic Rhodus, hic salta, la offende sull’abbigliamento (ritenuto poco femminile) scelto per il giorno del tradizionale passaggio della campanella, Giorgia Meloni è Presidente del Consiglio. Non per quota ma per merito. È brava ed è di destra.

Ed è la dimostrazione che, alla fine, la differenza tra chi arriva per merito, e chi per quota, si vede.

Perché, quando è stato eletto segretario, il primo diktat di Enrico Letta è stato quello di far fuori tutti i renziani e – utilizzando la scusa – di sostituire i due capigruppo in Parlamento Marcucci e Del Rio, con due donne. Usate come scusa, messe in mezzo solo per far fuori gli uomini di una corrente.

Ma loro, anziché rispondere no grazie, hanno accettato. Non sono state messe li perché sono le migliori, come ha dimostrato la figuraccia epocale di Serracchiani: sono state messe lì per quota – quella che hanno sempre chiesto apertamente – corrente, cooptazione. Altro che uguaglianza.

La recentissima vittoria di Elly Schlein alle primarie del Partito Democratico, inoltre, è la definitiva certificazione di un’altra realtà: il tema ‘donne’ nell’area dem è solo effetto reazionario alla vittoria di Meloni – che per loro conta solo perché vittoria di genere.

“Una donna che vince nel nome di tante altre”, come titola Repubblica; sacrificata sull’altare del giusto per definizione e della rincorsa obbligata sull’altra donna, quella del centrodestra.

In realtà, il Pd scimmiotta Fratelli d’Italia e sceglie un fiocco rosa alla guida del Nazareno sulla scia del protagonismo di Giorgia Meloni.

In effetti la svolta femminile del Pd, con l’inizio dell’era di Elly Schlein, non è altro che la reazione di chi insegue con la bava alla bocca chi la rivoluzione l’ha fatta da sola, all’interno del suo partito prima, della sua coalizione poi.

E’ l’effetto Meloni per cui Schlein deve innanzitutto rappresentare l’anti-Giorgia, la “donna che ama una donna, e non per questo è meno donna” in contrapposizione alla ‘donna, madre, cristiana’.

Scorciatoia narrativa inefficace in quanto evidenzia come nell’anti-melonismo si erga maestosa una nuova vittoria del melonismo stesso, se inteso quale effetto emulativo e subalternità culturale.

Lo sappiamo da tempo che, per alcuni, il femminismo vale solo per il gentil sesso di sinistra, come ipocrisia rossa insegna: gli episodi, le dichiarazioni, le uscite pubbliche sono tantissime.

Me ne viene in mente un’altra, clamorosa e surreale, di un paio d’anni fa quando bene fece la Senatrice Gallone a presentare un’interrogazione in commissione vigilanza Rai.

Su Rai Uno, durante la trasmissione ‘Uno Mattina’, il meschino Alan Friedman si concesse il volgare lusso di definire ‘escort’ la first lady Melania Trump, nell’inspiegabile silenzio generale dei vertici Rai, di politici, intellettuali ed associazioni che si professano da sempre ‘sostenitori’ del puro femminismo e di tutte le lotte in favore e a difesa delle donne, intestandosi nobili battaglie, indignandosi e mobilitandosi, però, solo quando l’attacco viene dall’altra parte e le vittime non sono quelle che vorrebbero.

Un comportamento sconvolgente e triste che svilisce l’importanza di un tema tanto sensibile e che nulla ha a che vedere con i colori politici.

E checché Giulia, la mia amica di lunga data, ne dica – facendomi notare come fin da bambino io fossi l’unico della classe a riempire di mimose e cioccolatini le mie amichette – a me personalmente e a tante/i altre/i di cui raccolgo il plauso, in generale non ha mai fatto impazzire l’idea di ‘Festa della donna’: perlomeno non se intesa come cene patetiche tutte rosa, ticket d’ingresso gratuiti per le ragazze nei locali e deturpamento della flora cittadina con alberi di mimose presi d’assalto da chiunque.

Essere donna, così come essere uomo, non è né un merito né un demerito. E’ una circostanza che nulla cambia relativamente al rispetto che si porta per una persona.

Credo invece che 8 Marzo debba fungere unicamente da monito educativo e politico-programmatico, in tutti gli ambienti e in tutte le situazioni in cui spesso si scivola: l’uguaglianza. Quella sì, più che gli auguri, necessaria.

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