Il centrodestra vince ovunque, la sinistra soltanto all’Ariston. Sanremo: il finanziamento pubblico al Partito Democratico. (Ed io pago)

di Francesco Catera

C’è stato un periodo in cui per me il Festival di Sanremo rappresentava solo l’occasione giusta per imparare qualche parola nuova dai testi delle canzoni e, qualche anno più tardi, per mettermi in gioco e buttarmi sul pianoforte intento a cercare ad orecchio la melodia dei pezzi che mi piacevano di più.

Ora che l’anagrafica consente riflessioni ulteriori, invece, rimpiangendo quei tempi purtroppo capisco il perché, di anno in anno, il Festival della canzone risulti sempre più indigesto ad una grossa fetta di italiani.

La settantatreesima edizione conclusasi sabato scorso ne è la spiegazione.

Il politicamente corretto, la morte del pensiero; allo stesso tempo la normalizzazione e l’esaltazione forzata degli eccessi, volgari esternazioni allusive per cui se non dai di matto o non ti uniformi, con comportamenti eclatanti che facciano scalpore, ad alcuni modelli precostituiti, contenitori vuoti e mero richiamo ad idee poco chiare definite a priori progressiste, non esisti nella tua dimensione di persona e di artista; la strumentalizzazione di temi incredibilmente seri per mezzo di figure e rappresentazioni vicine ad una determinata area, bombardamento di messaggi di bassissimo contenuto e da bassissima campagna elettorale.

L’unica gioia, verosimilmente, è sapere che tutti questi paladini del giusto per definizione non metteranno mai piede in Parlamento e che chi ne cavalca i temi e spesso la potenza mediatica continuerà a non governare per i prossimi (spero tanti) anni. O almeno a vincere le elezioni, dato che di governare hanno sempre governato comunque.

Dunque, spenti i riflettori del teatro Ariston, su Sanremo 2023 rimangono tante macerie, soprattutto morali.

Le cinque serate della settantatreesima edizione del Festival sono servite unicamente a dar vita alla falsa narrazione secondo cui l’Italia sarebbe un Paese razzista, sessista, governato da un branco di fascisti, con il rischio di una deriva assolutista dietro l’angolo e quindi con una Costituzione da difendere contro i barbari che vogliono cancellarla.

È un racconto ridicolo, patetico e che ci hanno propinato in tutte le salse di quello che assolutamente non è l’Italia.

Innanzitutto Benigni, giullare ufficiale dei dem, che con una lezioncina di educazione civica da terza elementare parla delle libertà Costituzionali sperticandosi in un’ode che sa di monito a vigilare, ora che abbiamo un solido governo di centrodestra.

Dov’era quando il governo di centrosinistra, in tempo di covid, violava ogni principio e ogni libertà costituzionalmente garantita?

Dov’è il suo coraggio se si ricorda della Costituzione solo quando ne godiamo a pieno e non quando, dei diritti che accorda, veniamo privati?

E, se fosse per come l’ha fatta passare lui, non avrebbe neanche avuto la possibilità di parlare. Invece lo ha fatto, con uno share del 65%, incontestato, mentre noi poveri italiani comuni – meno liberi evidentemente – eravamo costretti, nella falsa speranza di ascoltare buona musica, a sorbirci questi deliri da mondo magico.

Ferragni, il volto sbagliato nel posto sbagliato. Nel momento in cui per la prima volta nella storia l’Italia vanta un Presidente del Consiglio donna, lei ci fa il pippotto sulla parità di genere.

Fa venire il sangue al cervello.

Dal monologo sciorinato dall’influencer ci saremmo aspettati che rivendicasse con orgoglio il fatto di aver finalmente rotto il vetro di cristallo ed aver una donna Premier; ma evidentemente no, forse è meglio frignare che inneggiare una donna di destra. Quindi è sufficiente limitarsi alla frasetta che funziona, quella che alcuni vogliono sentirsi dire; ben fatto. Banalità di contenuti all’ennesima potenza.

Fuoriclasse dei social network e della vendita online di rossetti ma non all’altezza del ruolo che le hanno riservato all’Ariston, decisamente fuori luogo.

Invece, del monologo della sobria ed elegantissima Fagnani, con meno like sui social e qualche decennio di onorato giornalismo alle spalle in più, nessuno strascico in tv e sui giornali. E come aspettarsi il contrario?! Nessuna reazione: quello relativo alle carceri è un tema un po’ troppo liberal, troppo di buonsenso e troppo poco di sinistra.

Hanno fatto molto discutere – e lo voglio ben credere – anche le esternazioni di Paola Egonu che accusa apertamente l’Italia di essere un paese razzista. Diciamolo subito: Italia razzista è un ossimoro.

Le parole hanno un senso: un conto è dire che il razzismo va combattuto in tutte le sue forme di fronte ad una sparuta minoranza di imbecilli che come in tutti i Paesi del mondo molestano chi ha la pelle di un colore diverso, altro è asserire che l’Italia sia un paese razzista. Equivarrebbe a dire ‘tutti gli stranieri su suolo italiano sono delinquenti’. È semplicemente una stupidaggine.

Che Paola Egonu rispetti gli italiani. E la faccia finita con questa noiosa retorica vittimista: è lei stessa l’esempio di come l’Italia non sia un paese razzista.

Se davvero lo fosse, perché insieme ai genitori non ha mai pensato (menomale, aggiunge chi scrive) di tornare in Nigeria, che proprio un paradiso non mi sembra?

È semplice: la piccola Paola nata a Cittadella non avrebbe avuto la possibilità di crescere assistita dallo Stato alla pari delle sue coetanee di pelle bianca, non avrebbe potuto sviluppare i suoi talenti sportivi che le hanno fatto raggiungere traguardi storici e che l’hanno resa eroina ed esempio per migliaia di ragazzi; non avrebbe avuto la possibilità di vestire da leader la maglia azzurra della nazionale, di diventare beniamina di milioni di appassionati di pallavolo, di essere portabandiera della Nazione ai giochi olimpici, di sfruttare il suo successo per diventare conduttrice in un programma televisivo di punta delle reti Mediaset e non avrebbe potuto vivere alla luce del sole la sua dichiarata omosessualità.

Applaudire alla frase ‘l’Italia è un paese razzista’ significa applaudire chi ci taccia tutti, indistintamente, così.

Chi come me, invece, si indigna, ritiene che ci sia una minoranza di cretini che discrimina per il colore della pelle e, allo stesso tempo, una enorme maggioranza che invece non lo fa e che dovrebbe sentirsi offesa.

Che a creare scalpore sia stato Fedez, invece, non fa più notizia.

Il problema non è più lui – ormai ci siamo abituati – ma la Rai che continua a sperperare denari pubblici invitando personaggi di così bassa caratura.

Oltre la sponsorizzazione della droga, oltre l’adulterio consumato davanti agli occhi della moglie con un concorrente tutto trucco, maschere e gender fluid provocando indignazione in milioni di telespettatori – evito di soffermarmi, oltre l’ironia, sul messaggio che il gesto portava seco – sia chiaro: strappare la foto di un viceministro travestito da nazista ad una festa in maschera da ragazzo non aiuterà a ripulire la sua carriera e i testi delle sue canzoni ricchi di misoginia e antifemminismo.

Lady Dior che nel frattempo sul palco si è pulita la faccia col pippotto sulle donne, le ha ascoltate?

A dirla tutta, come fa notare Gianfranco Rotondi in una provocazione sarcastica ed intelligentissima durante un bell’intervento in radio, in una scala valore da zero a fascista ottiene più punti chi strappa la foto di un membro del governo rispetto a chi si traveste a Carnevale.

Se non altro per la violenza del gesto, intriso d’odio, che rappresenta la metafora: l’indicazione di un bersaglio; è lui l’uomo da colpire. Questo si, fascismo.

E allora quando si dice che in Italia esiste un rischio fascismo forse è vero, ma non si deve guardare verso il governo di centrodestra che ha ricevuto mandato popolare attraverso il voto libero degli italiani bensì verso questi sbandieratori mediatici strappa like al servizio della monopolizzazione del pensiero della sinistra in nome del politicamente corretto. Fascisti rossi.

Comunque, gli endorsement di Fedez per fortuna non servono a nulla; al contrario, fanno perdere una valanga di voti alla sinistra. E questo, tra le altre cose, è un fatto importante che invita alla riflessione sul tracollo del centrosinistra alle elezioni regionali in Lombardia e nel Lazio.

Gli esiti, quanto mai scontati, certo, ma incredibilmente in controtendenza rispetto alle urne dell’Ariston: i giullari dem conquistano Sanremo, il centrodestra stravince le elezioni ovunque con percentuali bulgare. Mai voto fu più politico, mai voto fu più strettamente collegato al favore che l’opinione pubblica riserva nei confronti dell’esecutivo e della sua azione di governo.

Il dato è da brividi per il popolo dell’Ariston: non solo il centrodestra vince con oltre 20 punti percentuali di distacco sfiorando il 57% delle preferenze, ma cresce anche del 10% in coalizione: tiene Forza Italia, risorge con decisione e oltre le più rosee aspettative la Lega, cresce a dismisura Fratelli d’Italia.

E le tragiche specifiche sull’altro grande vincitore di questa tornata elettorale, l’astensionismo – cresciuto notevolmente rispetto alle elezioni politiche di Settembre – dovrebbero spaventare più le forze del centrosinistra che la classe politica generalmente intesa: oltre ad aver perso in malo modo, evidentemente, non convincono neanche all’opposizione. Il loro cattivo stato di salute non aiuta, i loro temi non tirano.

Logicamente, anche agli elettori rossi più convinti certe cose non possono proprio piacere e, comprensibilmente, fanno fatica a votare il Pd: se una volta erano Berlinguer e Gramsci a dettare la linea politica ed ora è Fedez, la crisi del Partito Democratico è presto spiegata, tra le altre cose causata anche da vertici senza contenuti che confondono i voti e il mondo reale con i like e i consensi virtuali.

Ed ha incredibilmente torto Bonaccini – o perlomeno fa un grosso autogol – quando asserisce che l’astensione sia il segno che la vittoria del centrodestra possa essere meno netta di quel che appare.

Apertis verbis, la vittoria del centrodestra è schiacciante; ed è politicamente allarmante il fatto che a sinistra non ci si sia neanche alzati dal divano per recarsi ai seggi. Troppo stanchi per le fatiche della lunga nottata antecedente al voto trascorsa ad aspettare l’annuncio del vincitore della finale di Sanremo, probabilmente. Quello sì, un vero trionfo dem.

Ma non aggiungo altro sul voto: il tema è vasto ed avvincente e lo rimando, eventualmente, ad un successivo approfondimento.

Semplicemente, ormai è evidente – e la tesi del direttore Sallusti è perfetta: il Pd dipende da nani e ballerine. Esattamente quelli che organizzano e partecipano al Festival di Sanremo, aggiungo io.

Si, il Festival della Canzone italiana è la nuova sede del Partito democratico. E i contenuti, dunque, sono stati questi: un’escalation di squallide sceneggiate per ossequiare il Dio share, compiacere i teorici dell’ideologia gender fluid e compiere le consuete operazioni di killeraggio politico.

Ma il problema di fondo è stato il tentativo di convincimento messo in atto, pura propaganda ed esaltazione della potenza dell’opera di ibridizzazione del politicamente corretto di cui ci hanno inondato: la retorica del “siamo un popolo di razzisti, fascisti, intolleranti ed illiberali dunque arriviamo noi, dal palco dell’Ariston, ad impartire la lezione ed aiutare nell’opera di redenzione.”

Per carità, è evidente che gli italiani non si facciano convincere da queste fesserie: lo share di Sanremo è dovuto unicamente al fatto che esso sia diventato un evento mediatico internazionale; ma culturalmente è, nella monopolizzazione faziosa dei messaggi che manda, Stato totalitario.

Ed è inaccettabile che la tv pubblica si presti a questo gioco.

Lo squallore di Sanremo ha svelato, ancora una volta, l’indecenza della RAI. Per questo motivo urge più che mai una riflessione sul suo futuro: fosse per me, privatizzazione immediata; dove non arriva il buonsenso, arriva il mercato.

Di facile lettura la riflessione finale.

Partendo dall’assunto che Sanremo dovrebbe essere un palco nazional popolare e dall’analisi, a fondo sviscerata, di come in realtà si sia trasformato in un comizio elettorale di sinistra, quel che proprio non si capisce, anche in considerazione del fatto che il finanziamento pubblico ai partiti in Italia è stato definitivamente abolito dieci anni fa – ironia della sorte, proprio dal governo Letta a trazione Pd – è il perché i contribuenti italiani debbano essere costretti a pagare per finanziarlo.

È inaccettabile: se il Festival della Canzone Italiana è diventato il festival di tutto fuorché della canzone, una sorta di festa dell’Unità o versione invernale del concertone del 1 maggio dei comunisti col Rolex, non c’è ragione per cui gli italiani debbano continuare a pagare per realizzarlo.

Lo scrive finanche il professor Cottarelli, senatore dem, non proprio il più filogovernativo del panorama politico: un palcoscenico qualunque di una rete pubblica con uno share del 64% non può essere utilizzato per propagandare messaggi politici controversi a piacere degli artisti. Semplicemente perché non è giusto.

Esatto, non è giusto. Ma tant’è. Ed io pago!

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