di Francesco Catera
Quando si dice, impropriamente per il vero, “governo eletto dal popolo”, si suole indicare un esecutivo formatosi come diretta espressione del voto degli italiani ed è subito flashback al 2008, governo Berlusconi IV. Sì, bisogna ricordarlo perché sono passati 14 anni dall’ultima volta; che strana distorsione della democrazia. Saranno le leggi elettorali – diciamola così perché voglia di arrabbiarsi non ce n’è da queste parti – parlamenti eletti con metodo per lo più proporzionale e governi di compromesso senza stabilità. Ma oggi, finalmente, il Paese si sveglia con un esecutivo legittimato dal risultato delle elezioni; oggi, finalmente e dopo troppo tempo, governa chi ha vinto.
È la vittoria, innanzitutto, di una campagna elettorale unitaria. Si è parlato molto delle divisioni che, come è logico che sia, fisiologicamente esistono in una coalizione votata da milioni di persone che presenta 3 anime dominanti e diversità di pensiero. Ma in realtà, appena caduto il governo Draghi, il centrodestra ha trovato la quadra in poco tempo e l’accordo sul fatto che il partito più votato avrebbe espresso il premier sicuramente ha premiato. È soprattutto – e che tutti lo riconoscano – la vittoria di una donna, la prima a ricoprire il ruolo di Presidente del Consiglio dei Ministri in Italia. È storia ed è un traguardo di civiltà; per anni siamo stati a sentirci ripetere (e al governo c’erano gli altri) che esiste un vetro di cristallo da rompere e che le donne non riescono a raggiungere ruoli apicali: vetro rotto e sinistra a denti stretti perché, dopo la prima donna Presidente del Senato nel 2018, è ancora il centrodestra ad insegnare la lezione. Tant’è che non si sentono complimenti al di là del muro; non se ne sentono, per esempio, neanche da parte di chi per anni ha chiesto le quote rosa, una contradictio in adiecto rispetto al riconoscimento effettivo della parità di genere. Giorgia Meloni, invece, le quote rosa non le ha mai chieste perchè non si è mai trasmodata nel femminismo di chi vive di paletti ridicoli, di asterischi, mai sperticata negli ipocriti dogmi d’emancipazione di chi vive di storpiature della lingua italiana e di fumo. E c’è un particolare che probabilmente agli occhi dei più è passato inosservato: dopo l’esito delle elezioni, consapevole del fatto che presto sarebbe diventata Presidente del Consiglio, non una volta ha utilizzato la parola ‘donna’. Non ne ha avvertito la necessità e non perché non sia importante, tutt’altro: è il merito, non il genere biologico di chi lo porta; è la persona, non l’essere portatore sano di sesso rosa o blu. Uno schiaffo alle femministe progressiste che hanno consumato fiumi di inchiostro a sfondo rosa e parole vuote: e dunque, mentre Laura Boldrini la accusa di firmare i suoi atti con ‘Presidente’ e non ‘Presidentessa’ e qualche altra dichiarata paladina del femminismo puro, mostrandoci tutta la sua ipocrisia al momento dell’hic Rhodus, hic salta, la offende sull’abbigliamento (ritenuto poco femminile) scelto per il giorno del tradizionale passaggio della campanella, oggi, in questo momento storico per la nostra Repubblica, Giorgia Meloni è la prima donna Presidente del consiglio. Non per quota ma per merito. È brava ed è di destra.
Ancora, è la vittoria dell’Italia che non ha ceduto alle mistificazioni e alle aggressioni violente, a dir poco inaccettabili in uno Stato democratico, perpetrate dalla sinistra verso l’avversario: l’accanimento barbaro ed antidemocratico cui abbiamo assistito negli ultimi mesi contro una precisa parte politica, comunque la si pensi, per onestà intellettuale dovrebbe lasciare senza parole. Il tema del ‘pericolo fascismo’, unico argomento di una disonorevole campagna elettorale della coalizione di sinistra, può muovere un elettorato fortemente ideologico ma al cittadino medio non interessa, è un argomento finto, avulso dalla storia e dai tempi. O forse non è stata soltanto una scelta strategico-elettorale ed una parte di sinistra di partito, effettivamente, è realmente rimasta al 1947, ancorata al principio per cui se non la si pensa in un certo modo si è automaticamente fascisti. Sono gli stessi che, nonostante il chiaro esito delle recenti elezioni politiche, non riescono ad accettare i meccanismi della democrazia, non riescono ad accettare il voto di chi ha sensibilità diverse, di chi non la pensa come loro: è lo strano assunto secondo cui tutti coloro che non votano a sinistra sarebbero “ignoranti”; loro, invece, competenti, sensibili e colti per autoproclamazione. E, soprattutto, lorsignori possono offendere chiunque perché “antifascisti” e o ci si uniforma al loro pensiero unico o si è considerati inumani, retrogradi e, in quanto ignoranti, appunto, fascisti. Lo studiassero, i compagni, il fascismo. E ci spiegassero se è rinvenibile nella libertà di pensarla diversamente o nella loro pratica di demonizzazione dell’avversario in quanto tale; se sta nel coraggio di proporre un’idea di futuro fondata sulla libertà o nella politica del ‘contro’ perché loro sono gli autoproclamati buoni e gli altri i cattivi. Sì, sono sempre gli stessi, i ‘democratici a parole’ che provano a reprimere le idee diverse dalle loro, che spacciano per democrazia il loro pensiero ergendolo a verità assoluta e demonizzando quello degli altri soltanto perché contrario al proprio, critica del circostante sol perché si discosta. Se la vostra violenza viene spacciata per antifascismo, rimane fascismo. Rosso, ma fascismo. Etichette e pensiero unico, le medaglie di pluridecorati soldati del ‘giusto per definizione’, pericolosi estremisti mascherati da democratici e nascosti dietro omologazione, paletti ed insulti.
La portata delle parole degli influencer e dei tifosetti che nelle ultime settimane stanno inondando i social di insulti e odio è di una gravità non indifferente: non è altro che la naturale e diretta conseguenza del clima di illiberalità diffuso negli ultimi ventanni in Italia dai partiti di sinistra e dalla grossa ed egemonica filiera politico-mediatica che ruota intorno al Pd (ed alle forze affini) che si è ottusamente militarizzata, limitandosi ad attacchi pretestuosi e personali contro chiunque osi criticare. Metodi staliniani per intimidire e silenziare. Questa sinistra, la più antidemocratica e violenta degli ultimi decenni, si è resa vergognosa concretizzazione di un degrado cognitivo culturale ai massimi storici. È quindi, di certo, la sconfitta dei mea culpa della coalizione uscita sconfitta dalle urne che, nelle analisi post-voto, vertono unicamente intorno al ‘Cosa abbiamo fatto per non far vincere la destra?’ Quella stessa vittoria che, per il vero, è sembrata quanto mai scontata già al momento della presentazione delle liste. Gli avversari, ingenui, sono caduti nell’errore più sciocco per chi si destreggia nella materia: il campo largo non solo è concettualmente sbagliato ma anche inutile. Uno, perché provoca un calo dei singoli componenti in termini di percentuali – in politica la somma non ha mai fatto il totale – due, perché non si concentra su proposte e programmi ma sul mero tentativo di contrastare l’avversario – per loro, il nemico. E per questo, adesso, dove prima c’erano le bandiere rosse ora sventola semplicemente il tricolore italiano.
È la sconfitta di chi come Giuseppe Conte – il più grande alleato della Cina durante il suo Governo, leader di un partito che dovrebbe spiegare bene i suoi rapporti col regime Venezuelano e chiarire una volta per tutte la questione legata ai finanziamenti illeciti di Maduro e Chavez, e che ha votato contro l’invio delle armi in Ucraina – ha distorto a piacimento brandelli di conversazioni, frasi registrate di nascosto estrapolate da un discorso molto più ampio per far passare Berlusconi come un pericoloso filorusso e antioccidentale; e le ha utilizzate in sede di consultazioni al Quirinale per dare patenti di atlantismo a Forza Italia, il partito che non ha mancato con un solo atto parlamentare il pieno supporto al popolo ucraino contro l’invasione russa e che in 28 anni di vita politica, più di tutti, ha costantemente improntato il proprio impegno in politica estera a favore di posizioni fortemente europeiste, atlantiste e ispirata ai sistemi di valori dell’Occidente. Ed è davvero paradossale, comunque la si pensi, che a criticare un ex Presidente del Consiglio che davanti al Congresso degli Stati Uniti ricevette una standing ovation di ammirazione e riconoscenza verso i valori liberali, democratici e di ispirazione atlantista che ne illuminavano l’azione di governo, e che ebbe un ruolo decisivo nello storico accordo tra NATO e Russia del 2002 a Pratica di Mare il quale mise definitivamente fine alla guerra fredda, sia anche chi – proprio come il PD – si è presentato alle elezioni in alleanza con l’estrema sinistra di Fratoianni, che in Parlamento vota contro la NATO; chi – come la sinistra tutta – i finanziamenti dalla Russia comunista li prendeva davvero ed è stata storicamente, per troppe volte, dalla parte sbagliata della storia.
È la sconfitta di chi storce il naso nelle ultime ore per quel ‘del merito’ affianco a ‘Ministero dell’istruzione’. Non me ne stupisco: veniamo da anni bui, disabituarsi al principio dell’uno vale uno inseguito negli ultimi anni non sarà un esercizio semplice; ma lentamente si tornerà, tutti insieme, ad apprezzare quanto sia importante premiare le competenze. È la sconfitta di chi storce il naso anche per ‘Sovranità alimentare’ accanto a ‘Ministero dell’Agricoltura’. Magari dimenticando che nella Francia di Macron – il Presidente al cospetto del quale noti giornalisti a loro vicini hanno avuto il coraggio di dire che per molti italiani Parigi è la capitale d’Italia – la denominazione del ministero è la stessa, senza che nessuno abbia mai mosso sterili polemiche; dimenticando, magari, che ‘sovranità alimentare’ non è altro che la declinazione del principio in base al quale l’Unione Europea nel 1992 ha coniato il marchio di tutela giuridica ‘denominazione d’origine protetta’ rispetto a prodotti alimentari di elevata qualità, la zona di origine e le tradizioni di produzione dei quali li rendono così peculiari da doverli salvaguardare. E allo stesso tempo, questa, è la vittoria degli italiani che per scelta si sono liberati dal Pd e dagli affini, dalla loro egemonia di potere, dal fascismo al contrario che hanno inventato, dall’autoritarismo alla rovescia che hanno creato, dall’estremismo dei loro leader che, dai palchi, il mese scorso annunciavano di voler ‘far sputare sangue all’avversario a prescindere da una eventuale sua vittoria alle elezioni’ – si vergognino – e dal distopico clima di illiberalità e odio che hanno diffuso. È la vittoria della gente che si è stancata di un’ autocrazia che da 10 anni prende in giro il Paese: basta all’auto-conservazione come unico valore e impegno della politica, basta con l’esercizio del potere per il potere.
Ha vinto, democraticamente, l’Italia; evidentemente, l’Italia, s’è desta.