Il ritiro americano dall’Afghanistan è solo l’ultimo passo di una parabola disastrosa cominciata, ormai, 20 anni fa e le e cui conseguenze iniziano già a farsi sentire in tutto il loro realismo
di Lorenzo Rezzonico
“Quante vite ancora – quante migliaia di americani, di nostre figlie e nostri figli – siete pronti a rischiare?”. Questa è la lapidaria risposta che il Presidente Americano Joe Biden ha dato ai giornalisti durante una conferenza stampa giovedì, giustificando così la sua decisione di ritirare le rimanenti truppe statunitensi dal territorio afghano entro la data simbolica dell’11 settembre 2021, a 20 anni esatti da quell’avvenimento che, non se ne capisce bene il motivo, avrebbe per molti cambiato il mondo.
La risposta degli Stati Uniti a tale evento fu puramente emozionale, “di pancia”, di fronte ad una situazione dall’ immisurabile dolore umano ed enorme portata simbolica. Ma la razionalità ed il crudo dominio del realismo dettano le regole delle relazioni tra Stati e, di conseguenza, tra esseri umani. Chiaramente, e da una posizione di grande privilegio a 20 anni di distanza, possiamo essere sicuri nel dire che la razionalità nella scelta americana dell’ottobre 2001 era inesistente. Non solo: la preparazione militare e la conoscenza della terra, nella sua accezione più profonda ed umana, lo erano altrettanto. Risultato? Una campagna militare, portata a termine in poche settimane, che si pensava risolutoria e che invece portò all’innesco di insorgenza e guerriglia da parte dei talebani, alla base del fallimento americano e, quindi, del desiderio degli ultimi due presidenti di darsela a gambe. Come successe ai britannici nel 19esimo secolo. Come successe ai sovietici alla fine degli Ottanta del secolo passato. Come succede oggi agli americani. Morale: dall’Afghanistan non si passa, e forse la storia merita ancora di essere studiata con meticolosa attenzione nelle scuole.
Le analogie col caso vietnamita sono legittime, ma la differenza sostanziale sta nell’esito dei due avvenimenti: con la conquista della fu Saigon (oggi Ho Chi Minh City) il Vietnam giunse finalmente a quella tanto agognata riunificazione, obiettivo per il quale milioni di persone diedero la loro vita, costringendo la superpotenza alla prima, vera, umiliante sconfitta militare. Oggi, invece, il regime dei talebani rivendica di aver riportato sotto il proprio controllo l’85% del vastissimo territorio nazionale, ed aldilà della veridicità o meno di tale affermazione (è del 10 luglio la notizia certa della conquista della seconda città dell’Afghanistan, Kandahar), le conseguenze di tale scenario sono facilmente intuibili: caos e destabilizzazione in un Paese dilaniato dalla guerra e che potrebbe fungere da bomba ad orologeria in una regione altrettanto irrequieta.
Biden sta semplicemente facendo ciò che la sua opinione pubblica chiede da anni, ciò che il suo predecessore Donald Trump promise fortemente in campagna elettorale, non riuscendo però a mantenere tale promessa. Chiaramente gli Stati Uniti escono da questa vicenda indeboliti solamente dal punto di vista della loro immagine, in quanto il loro primato mondiale è talmente inscalfibile dal non poter essere minimamente influenzato dagli avvenimenti afghani. Ed è proprio questo il motivo per cui la scelta di invadere il Paese nel 2001 sembra ancora più insensata e motivata da puro sentimento sensazionalistico: il monito, forte e chiaro, è che in politica internazionale, e specialmente nella sua più duratura e naturale piega, la guerra, il posto per sentimenti di pietà e commozione non esiste: l’unico obiettivo deve essere quello di avanzare un proprio interesse nazionale, di avanzare la propria posizione politica e geopolitica nei confronti di altre nazioni, di mantenere (oppure avanzare) il proprio posizionamento nella gerarchia del potere globale. Non a caso, “la calma è la virtù dei forti”, e freddezza ed equilibrio sono le doti di qualsiasi decisore di grande livello. Chissà se a Washington il messaggio sia arrivato a destinazione.