La disputa territoriale che riguarda israeliani e palestinesi è probabilmente la più complicata al mondo. Alla base delle violenze degli ultimi giorni non c’è però soltanto un problema ideologico e di reciproco riconoscimento, bensì, più che mai, anche e soprattutto motivi politici interni ai due schieramenti
di Luca Saibene
Nelle ultime settimane si è riacceso lo scontro tra Palestina ed Israele come non accadeva da parecchi anni. Per comprendere meglio i fatti attuali è utile tornare un po’ indietro nel tempo, partendo dal 1917. È questo l’anno in cui, con la Dichiarazione Balfour, il governo britannico riconosce il diritto del movimento sionista a creare in Palestina una sede nazionale e legittima quindi l’immigrazione ebraica. A questo momento storico si potrebbe ricondurre l’inizio degli scontri tra i coloni ebrei e i residenti arabi, che si intensificano negli anni ’30 e ’40 con l’aumento del flusso migratorio a seguito delle persecuzioni razziali in Europa e sfociano in una vera e propria guerra quando il 15 maggio 1948 il Regno Unito, trovatosi di fronte ad una situazione incontrollabile, ritira le sue truppe dalla Palestina e gli ebrei proclamano la nascita dello Stato di Israele. Comincia così il dramma palestinese ed il relativo conflitto arabo-israeliano che arriva fino ai giorni nostri. Senza volerne ripercorrere tutta la storia, la quale richiederebbe centinaia di pagine e vedrebbe coinvolte decine di Paesi, è però importante ricordare che oltre a momenti di grande tensione e sanguinose guerre – tra cui la crisi di Suez del 1956, la guerra dei sei giorni del 1967 e quella del Kippur del 1973 e le due intifada – ci sono stati anche periodi in cui una pace, seppur molto instabile, è sembrata quantomeno possibile. In particolare, con gli accordi di Washington e Oslo del 1993, l’OLP (Organizzazione per la Liberazione della Palestina) riconosceva “il diritto dello Stato di Israele di esistere in pace e sicurezza” e rinunciava al terrorismo, mentre Israele riconosceva l’OLP come rappresentante del popolo palestinese.

Nonostante i timidi progressi degli anni ‘90, ad oggi la situazione è ancora drammatica. Negli ultimi anni Israele ha continuato ad espandersi occupando zone palestinesi, in particolare in Cisgiordania e a Gerusalemme Est. È però Gaza a rappresentare uno dei punti chiave di questo conflitto: qui si sono consumati i peggiori massacri ed è in questo piccolo lembo di terra che si sono rifugiati milioni di palestinesi durante gli anni di politiche espansionistiche da parte di Israele. Con la Battaglia di Gaza del 2007, Hamas – un’organizzazione palestinese di carattere politico e paramilitare, considerata da molti stati (tra cui l’Italia) un’organizzazione terroristica – ha ottenuto il controllo di questo territorio; tale evento ha diviso politicamente e territorialmente i palestinesi, con il Fatah di Abbas che ha mantenuto il potere in Cisgiordania ed è riconosciuto a livello internazionale come Autorità palestinese ufficiale (Stato di Palestina), mentre Hamas controlla tuttora la Striscia di Gaza.

Date queste premesse, possiamo ora analizzare l’escalation di violenza degli ultimi giorni. Inizialmente lo scontro era dovuto all’occupazione da parte di Israele del quartiere palestinese di Sheikh Jarrah (Gerusalemme Est), dove sono stati distrutti diversi stabili e molte famiglie palestinesi sono state costrette ad abbandonare le loro case, e alle rappresaglie da parte della polizia israeliana contro i palestinesi presso la Spianata delle Moschee. Sono poi subentrati però anche motivi politici: per Hamas, infatti, i fatti di Sheikh Jarrah erano un’occasione imperdibile per prendere le difese del popolo arabo e riaffermare la propria presa sull’elettorato palestinese, che dovrebbe essere chiamato al voto a breve dopo più di 15 anni. L’occasione è stata colta: il 10 maggio 2021 Hamas ha sferrato un attacco missilistico contro Israele colpendo obiettivi sensibili della Città Santa e imponendo l’immediata evacuazione (tra le altre cose) dei fedeli ebraici al Muro del Pianto. Israele ha risposto bombardando pesantemente la Striscia di Gaza. In tutto questo il governo palestinese è sempre più debole e le città cisgiordane stanno per esplodere. E mentre le sirene antiaeree terrorizzano la popolazione, le potenze straniere chiedono la fine delle ostilità e prendono le difese dell’uno o dell’altro. In un conflitto in cui i motivi ideologici, territoriali e religiosi fanno solamente da sfondo a quelli politici, Abu Mazen chiede l’intervento di Biden per fermare l’aggressione di Israele mentre Netanyahu assicura che il suo esercito fa il possibile per non colpire innocenti. Nel frattempo, le vittime palestinesi sono oltre 200, di cui più di 60 sono bambini, e la striscia di Gaza torna ad essere teatro di un orrore che ha avuto un inizio preciso ma di cui, ora più che mai, non si intravede la fine.
